That's what I was writing in July 2009...
Gli effetti della crisi finanziaria sul commercio internazionale sono stati finora di una intensità senza precedenti. I flussi di commercio sono collassati pesantemente, improvvisamente e in maniera simultanea in quasi tutti i paesi del mondo (figura). Questo fenomeno per ampiezza e per sincronismo risulta nuovo e pertanto suscita alcune domande, tra le quali: perché il commercio sta collassando in questo modo? In che misura questo è una conseguenza della crisi e in che misura ne aggrava gli effetti? Hanno senso le misure protezionistiche invocate a difesa da più parti?
Gli effetti della crisi finanziaria sul commercio internazionale sono stati finora di una intensità senza precedenti. I flussi di commercio sono collassati pesantemente, improvvisamente e in maniera simultanea in quasi tutti i paesi del mondo (figura). Questo fenomeno per ampiezza e per sincronismo risulta nuovo e pertanto suscita alcune domande, tra le quali: perché il commercio sta collassando in questo modo? In che misura questo è una conseguenza della crisi e in che misura ne aggrava gli effetti? Hanno senso le misure protezionistiche invocate a difesa da più parti?
Senza alcuna pretesa di rispondere in maniera esaustiva a questi interrogativi, penso sia utile riportare alcuni spunti che mi sembrano interessanti e che sono frequentemente citati.
Innanzitutto, uno dei fattori principali nello spiegare il collasso del commercio è rintracciabile nella frammentazione della produzione a livello mondiale. Questo da un lato ha creato un network denso di collegamenti tra le imprese dei diversi paesi aumentandone la competitività, dall'altro ha esposto il sistema alla possibilità di un effetto domino. In tale contesto è logico aspettarsi che uno shock nazionale si ripercuota sulle importazioni di input (oltre che di beni finali) dall'estero. E a sua volta questo, influenzando negativamente la domanda estera, potrebbe diminuire l'export nazionale, con un effetto moltiplicativo rispetto al caso in cui non vi sia frammentazione della produzione.
Una impresa nazionale che esporta di meno è una impresa che importa meno input, che significa una impresa estera che esporta di meno. Generalizzando è facile spiegare perché assistiamo al collasso simultaneo del commercio. Inoltre gli ordinativi di solito richiedono degli intermediari finanziari per gestire i pagamenti e fronteggiare il rischio di controparte. Se ottenere credito diventa difficile e se la fiducia nelle controparti viene a mancare, allora l'intera filiera produttiva internazionale può trovarsi in difficoltà.
La crisi finanziaria, il razionamento del credito e la mancanza di fiducia potrebbero aver innescato questo tipo di dinamiche.
Se la situazione è questa, allora una vampata protezionistica potrebbe rivelarsi deleteria.
In uno scenario in cui la produzione dei beni finali è frammentata a livello globale non è pensabile “proteggere” l'industria nazionale con misure di chiusura. Le imprese che hanno sfruttato le opportunità del mercato aperto per rimanere competitive snellendo la propria filiera produttiva, importando o producendo all'estero i propri input non potrebbero che essere danneggiate da un ritorno del protezionismo. Questo non farebbe altro che aumentare i loro costi. Inoltre il danno alle imprese estere fornitrici finirebbe in parte per ripercuotersi sulla domanda di esportazioni. Oltre il danno la beffa.
E non credo che questo tipo di conseguenze possano essere evitate restringendo le misure protezionistiche solo ai beni finali.
Infine, esiste la possibilità che l'innalzamento di barriere scateni ritorsioni da parte dei paesi danneggiati, con il rischio di vanificare gli sforzi fatti finora in favore del libero scambio, cosa che avrebbe effetti negativi su reddito e occupazione. Rimuovere le barriere è tipicamente più difficile che innalzarle, gli ultimi 50 anni di accordi e contrattazioni internazionali dimostrano come la rimozione di barriere sia un processo lento e faticoso. Il fallimento del Doha round ne è un esempio.
Finora il collasso del commercio è stato fondamentalmente una conseguenza della crisi, così come lo è il desiderio di protezione di imprese e lavoratori. Ma il protezionismo non può essere la risposta. Anzi, la chiusura al commercio priverebbe le economie di uno degli strumenti per fronteggiare la crisi. Dal secondo dopoguerra il commercio mondiale è cresciuto a tassi nettamente superiori al prodotto e ne è probabilmente stato uno dei motori. Al contrario le barriere al commercio rischiano di ridurre gli effetti delle misure di stimolo fiscale e monetario messe in atto da molti paesi.
Evitare che il collasso del commercio da conseguenza della crisi finisca per aggravarne gli effetti o per renderne più faticosa l'uscita è fondamentale. E' necessario perciò un grande sforzo di cooperazione a livello internazionale per evitare spinte protezionistiche e per attivare misure alternative per imprese e lavoratori colpiti.