That's what i was writing in November 2009...
Quello degli squilibri commerciali, principalmente di USA e Cina, è uno dei temi più dibattuti nell'ultimo periodo. In molti si domandano se tali squilibri siano sostenibili o se siano tra le cause dell'attuale crisi.
In effetti, secondo la teoria economica standard gli squilibri commerciali semplicemente non dovrebbero esistere nel lungo periodo, dato che prima o poi i debiti vanno pagati. E il meccanismo riequilibratore passa principalmente dal tasso di cambio.
In teoria, il legame tra tasso di cambio e conto corrente è abbastanza chiaro: un deprezzamento tenderà a migliorare il disavanzo commerciale (se le domande di import/export sono abbastanza elastiche - condizione di Marshall-Lerner).
Un legame chiaro ed intuitivo, che l'attuale crisi, con il deprezzamento del dollaro e la riduzione degli squilibri, sembra confermare.
Dobbiamo perciò pensare che la crisi porterà al riequilibrio dei saldi commerciali, proprio come previsto dalla teoria e come del resto si sta osservando?
Per rispondere, proviamo a fare il seguente ragionamento.
Il conto corrente è la differenza tra esportazioni e importazioni, ed equivale alla differenza tra risparmio e investimenti. Assumiamo che il tasso di cambio nominale sia fisso, o semplicemente scollegato dai fondamentali (disconnect puzzle). Prendiamo per esempio USA e Cina. Un riequilibrio del deficit americano e del surplus cinese richiederebbe una riduzione di spesa in USA e un aumento in Cina. Quali sarebbero le conseguenze di questo riequilibrio? La variazione della spesa influisce maggiormente sui prodotti nazionali che su quelli esteri, dato che i primi rappresentano una quota maggiore. Quindi la riduzione della spesa americana creerebbe un eccesso di offerta di prodotti americani, mentre l'aumento di spesa cinese creerebbe un eccesso di domanda di prodotti cinesi. Ci si aspetta dunque deflazione negli USA e inflazione in Cina. In altre parole, anche se il tasso di cambio nominale fosse fisso, il dollaro si deprezzerebbe in termini reali.
Ma attenzione, tutto questo vale solamente se i prezzi sono flessibili e la curva di offerta è inclinata positivamente, cioè solo se si è prossimi al pieno impiego. In questo momento però siamo in recessione e i tassi di disoccupazione sono alti, cioè siamo ben lontani dal pieno impiego. Inoltre, molti ravvisano un eccesso di liquidità e una generale incertezza. Cosa significa questo? Significa che i prezzi potrebbero non aggiustarsi tanto rapidamente e che le variazioni del cambio nominale potrebbero rispondere più alle aspettative e alle incertezze dei mercati che ai fondamentali. In altre parole, l'ipotesi di pieno impiego, che induce ad aspettare un deprezzamento del dollaro non è adeguata in questo momento, benché valida nel lungo periodo. Al contrario, l'ipotesi che il tasso di cambio sia sostanzialmente scollegato dalle principali variabili economiche, mi pare coerente con il clima di incertezza e l'eccesso di liquidità, benché non sostenibile nel lungo periodo. Perciò è lecito aspettarsi un deprezzamento del dollaro nel lungo periodo, ma non è corretto interpretare la fase attuale in base a modelli che non sono coerenti con essa.
Insomma, il dollaro si è effettivamente deprezzato e gli squilibri commerciali si sono ridotti notevolmente. Questo significa che l'economia mondiale si sta muovendo, come predetto dalla teoria standard, verso un miglioramento degli squilibri? Crediamo di no, perché la situazione attuale è diversa da quella teorica.
Richard Baldwin e Daria Taglioni sottolineano che la sostanziale riduzione degli squilibri commerciali dei paesi (USA, Cina, UK e Germania in testa) potrebbe essere solamente apparente.
Il motivo principale di questa affermazione sta nel fatto che la riduzione degli squilibri commerciali potrebbe essere una semplice conseguenza del crollo degli scambi mondiali, che, come ricordato nel mio articolo del 20 luglio, è senza precedenti. Se così fosse, allora la riduzione degli squilibri sarebbe solamente transitoria e i vari deficit/surplus commerciali tornerebbero velocemente al loro livello pre-crisi insieme alla ripresa degli scambi mondiali. Nessun cambiamento strutturale insomma.
L'analisi del contesto economico ci porta a condividere questa opinione.
In primo luogo, per analogia con il passato: nelle crisi precedenti (1975, 1982, 2001) il commercio mondiale, dopo l'iniziale crollo, è sempre tornato a crescere stabilmente, raggiungendo il livello iniziale in meno di un anno.
In secondo luogo, perché un riequilibrio richiederebbe principalmente un deprezzamento del dollaro. Ma, anche se è vero che il dollaro si è deprezzato nei confronti delle principali valute, probabilmente si sarebbe deprezzato in misura maggiore se non fosse domandato come riserva internazionale. Ovvero il dollaro non è sufficientemente deprezzato (figura dal blog di Paul Krugman). Inoltre, alcuni osservatori avvertono un rischio di inflazione con la ripresa degli USA. Nessuno di questi elementi è coerente con una effettiva diminuzione degli squilibri commerciali oltre la crisi.
Tutto ciò che possiamo dire perciò è che non siamo ancora usciti dalla crisi, che ci sono alcuni segnali positivi, ma l'incertezza non è scomparsa, come testimoniano le quotazioni dell'oro. In questo momento le variabili economiche sono difficili da interpretare, ma una cosa è chiara: per ora non ci sono elementi a favore di un cambiamento strutturale tali da far pensare che la ripresa non riporti anche ai vecchi squilibri.
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Riferimenti: